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Accettare il cambiamento

Aggiornamento: 9 gen 2023

Quando ero malata mi chiedevo di continuo se quell’inferno sarebbe mai finito.

Se sarebbe mai arrivato il giorno in cui sarei riuscita a comprare qualcosa dagli scaffali del supermercato senza controllare ossessivamente l’etichetta dei valori nutrizionali o in cui avrei smesso di contare mentalmente le kcal di ogni singolo pasto.

Mi chiedevo come sarebbe andata dopo, chi sarei diventata, ma soprattutto, come? Perché ovviamente io mi vedevo benissimo, a un chilo dalla soglia del ricovero. Il medico mi aveva dato una sorta di ultimatum: a disposizione solo qualche mese di tempo per rimettere le carte in ordine, altrimenti sarei stata costretta a farlo in un letto di ospedale col sondino. Non passava giorno in cui non mi sentissi infinitamente ingombrante, in cui non mi sentissi stanca fisicamente ma soprattutto emotivamente. Il disturbo non stava distruggendo solo me, ma gravava anche sulla mia famiglia e su tutte le persone che mi stavano vicine. Quelle cose che avrebbero dovuto rendermi felice, ma che si trovavano al di fuori della mia zona comfort, mi facevano sentire malissimo, tipo gli inviti inaspettati, le feste, le uscite e i progetti, i regali o le nuove esperienze.


Spesso mi sentivo ancora peggio a causa delle mie reazioni, dei i miei pensieri, dei i miei comportamenti - non solo in ambito alimentare. Mi facevo paura, ma anche rabbia e tristezza. Sentivo di sbagliare sempre tutto ed era come se ogni volta volessi punirmi per non aver fatto abbastanza. Non è stato facile mettere a tacere i demoni che avevo dentro e sono cresciuti con me, dai 15 anni in poi.

Mi sentivo debole, estremamente fragile e vulnerabile. Ero stanca di dover dimostrare, di dovermi sforzare: mangiavo solo per far felici gli altri, così ogni boccone diventava sempre più amaro, carico di aspettative e di dimostrazioni.

E nel frattempo la testa non lasciava proprio un attimo di tregua, voci interiori che urlavano, imperterrite: “perché mangi? Non hai fatto niente, non ne hai bisogno. Questo è troppo, questo non puoi permettertelo, questo te lo sogni”.

Non potevo prevedere il futuro, soprattutto perché il mio presente era fin troppo distorto per potermi fidare, per cui non mi restava che provare a mettere insieme mattoncini che, un giorno, avrebbero portato a circondarmi di mura diverse, meno opprimenti, più solide e funzionali. Così ogni giorno, letteralmente, ho iniziato a lottare.

Prendevo a pugni quei pensieri e cercavo di farmi sempre più spazio; avevo una tela bianca a disposizione, volevo dipingerla utilizzando tutti i colori che finora avevo sempre tenuto nel cassetto. Oscillavo fra la paura di andare avanti e quella di perdere tutto ciò che, faticosamente, stavo costruendo.

Erano anni che mi sentivo schiava della mia stessa mente, dei numeri, dei conteggi. Schiava di certi schemi, convinzioni spesso assurde e infondate. Quelle azioni nate con l’obiettivo di prendermi cura di me stessa si sono poi rivelate il motore iniziale della malattia, durata anni, pur non visibilmente. Andava tutto male da tempo. Forse il cambiamento avrebbe potuto farmi stare peggio, o forse NO.

Valeva la pena provarci.

Sapevo che niente si costruisce in un giorno e niente si costruisce da sé. Volevo uscire vincitrice da quella battaglia? Allora dovevo continuare a lottare, a testa alta, senza aver paura di chiedere aiuto. Sapevo che il futuro avrebbe potuto riempirsi di opportunità, di nuove esperienze e di vita vera, se solo glielo avessi permesso.

Dovevo però includere e saper accettare anche i momenti negativi, le apparenti ricadute, le crisi, gli attacchi di panico, i pianti. Ho imparato a farlo, con tanta difficoltà.

Ho capito che non dovevo dimostrare più niente a nessuno, se non a me stessa. Che dovevo iniziare ad agire per il mio bene. Ho capito che dovevo volerlo davvero, continuamente, non solo oggi, non solo domani ma ogni singolo giorno.

Fuori dalla mia bolla esisteva un mondo intero e io me lo stavo perdendo, tutto.


Ho capito, con tanta fatica, che il cambiamento era necessario. Ho capito che non si trattava solo di “mettere” peso, ma recuperare: vita, sorrisi, pensieri positivi, prospettive e speranze. Non sapevo quanto tempo ci avrei impiegato: forse sarebbe accaduto prima di quanto pensassi, forse non sarebbe mai accaduto e avrei imparato a convivere con quelle paure. Ancora oggi non so darmi una risposta di come sia andata realmente. So che ci sono giorni in cui continuo a vincere, giorni in cui sorrido e giorni in cui mi addormento piangendo. Ma ho imparato ad abbracciarmi un po’ di più, a sussurrarmi qualche parola di conforto, anche quando quei demoni tornano a bussare e l’abisso sembra l’unico posto in cui è possibile respirare un po’.


Un respiro, la vita.


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